Mai
2005
Buddhismo
e religione
Spesso riprende il dibattito
per sapere se il Buddhismo è o meno una religione. Degli
avvenimenti personali mi portano a riprendere la problematica.
Questa riposa infatti sulla definizione della
parola "religione". Nelle nostre società europee, la
definizione data da Tertulliano, autore cristiano dei secondo e terzo
secoli della nostra era, dandole l'etimologia del verbo "religare", ha
un po' teso a prendere il passo su quella di Cicerone (1°
secolo ante la nostra era) che dava piuttosto "rilegere", il che viene
confermato dai linguisti moderni. I non specialisti avranno quindi il
massimo diritto di denunciarmi per un eccesso di tetratricotomia*.
Ciò detto, il risultato di tale divergenza è che
vengono considerate religione, nel primo caso, le sole forme di culto
ad una divinità, preferebilmente unica, e dunque, Giudaismo,
Cristianesimo e Islam esclusivamente. Per estensione, si
consentirà a giungerci altre religioni, eventualmente
non-monoteiste, tipo Zoroastrismo ou Induismo, e certo più
in uno spirito sociologico ed antropologico quanto altro, specie quando
si tratta di religioni pagane tipo Vodu o Candomblé. Ma
grosso modo, per quella gente, una religione è il culto di
una o più divinità. Punto e basta, e siccome il
Buddhismo non è culto di una divinità, tranne nei
casi di deriva superstiziosa in certi paesi di Buddhismo tradizionale.
Mi pare che così si stia passando oltre
il problema reale. La grande preocupazione dell'Uomo, quella che sta
all'origine di ogni culto, di ogni religione, non è il culto
di divinità checchessiano. La vera e propria preocupazione
è l'angoscia frente alla morte.
Perché piangiamo alla morte di uno dei
nostri familiari, parenti o amici? Potrebbe essere, nel quadro di un
pensiero tipicamente cristiano, per compatimento, dal fatto di sapere
che quella persona se ne andata direttamente all'Inferno, per
l'eternità? Alé, neanche ci credono gli stessi
cristiani. Magari all'inferno ci credono, ma non per il loro
defunto. Mai. Potrebbe essere il vuoto che tale perdita ci lascia nel
tessuto sociale e familiale nostrano? Forse, in parte, ma quello non
spiega tutto. Infatti, si piange perché, come diceva John
Donne, "non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona
per te!"
Le religioni sono un tentativo di risposta
all'angoscia della morte. Lo più usano semplicemente
dell'artificio di una o più divinità per poter
spiegare un mondo incomprensibile, e per offrire un sollievo
all'angoscia di sparire. Il Buddhismo non dice che esistano quelle
divinità. Anzi, l'idea della loro esistenza non gli da
fastidio, poiché ha capito da dove provengono. No, egli
prende coscienza di quel che fondamentalmente motiva tale angoscia, e
lavora a partire da essa. E questa angoscia proviene dal nostro
attaccamento all'esistenza del nostro io, attaccamento che ci porta a
desiderare che quell'io possa esistere immutato per tutta
l'eternità.
In quel senso ci viene meno il linguaggio,
perché ciò che itendiamo per religione e
filosofia corrisponde poco a quel ch'intendevano i nostri antichi
antenati. E se guardiamo un poco indietro, nella storia
dell'Antichità, osserviamo che i due termini non sono
così nettamente separati. La religione, nel senso che ne da
Cicerone, senso corroborato dai linguisti moderni, è affare
di riti. Si "rileggono" i testi canonici che ci consentono di
rispettare il rito. La gente comune se ne accontenta, non ha tanto
tempo per le preocupazioni metafisiche, e le consente il rito evacuare
parte dello stress quotidiano. Le menti più "forti" partono
all'assalto della filosofia, che va più in fondo alle cose,
ma che è un poco riservata agli oziosi, a chi ha i mezzi di
esserlo e a chi se li da, questi mezzi. E si osserva allora che
numerose sono les scuole filosofiche, che pretendono tutte dare una
soluzione al problema dell'angoscia di fronte alla morte, che la meglio
conosciuta, più correntemente accettata, è la
scuola del Porticato, detta "stoica" (dal greco Stoa, porticato, il
luogo dove si solevano incontrare gli fondatori della scuola in Atene),
che è una etica poggiatasi su di un concepimento logico del
mondo fisico e della conoscenza, nel quale l'ideale sarebbe vivere in
armonia con se stessi, col prossimo e con la natura, e di
là, ricercare l'assenza di turbamenti. Ecco che somiglia
alquanto all'insegnamento del nostro Gotama!
C'erano altre scuole: quella di Pitagora (caro ai
scolari) insegnava una dottrina segreta basata sui numeri e la
metempsicosi o reincarnazione che sia. La scuola di Epicuro inseganva
una dottrina vicina a quella degli stoici, ma basata sulla teoria
atomica e quindi ritenuta impia e materialista, insistendo sul fatto di
approfittarsi dell'istante presente, e quindi calunniata.
Ma nell'assieme, non c'era per gli Antichi niente
di quella separazione tra religione e filosofia che facciamo noi. L'una
era soltanto l'approfondimento dell'altra. Fu senz'altro una delle
ragioni del successo del Cristianesimo, e più tardi
dell'Islam: una soluzione predigerita alle interrogazioni della gente,
l'equivalente in religione del fast-food, che non dava più
obbligo alla persona di perdere tempo a chiedersi il perché
del come di ogni atto della vita e pesarne il pro ed il contro: un
manuale che dice "A = bene. Z = male" ecc.
Se c'interessiamo di queste cose, sarà
forse che abbiamo percepito i limiti di uno stile di vita a secondo il
libro. E l'iniunzione di Gotama che ci dice: "Non vi fidare a
ciò che pensate di sapere a ragione dell'averlo sentito
ripetutamente, né a ragione della tradizione, né
a ragione della diceria; né perché lo si trova in
una scrittura; né a ragione di una supposizione;
né a ragione di un assioma; né in seguito ad un
ragionamento specioso; né per partito preso a favore di una
nozione alla quale ci si sarebbe potuto riflettere; né per
l'apparente abiltà di qualcun'altro; né a ragione
della considerazione 'Questo monaco è il nostro maestro
spirituale'. Ma quando sapete voi stessi: 'Queste cose sono male;
queste cose sono biasimevoli; queste cose vengono condannate dai saggi;
se le si intraprende e osserva, queste cose portano a danno e
infortunio,' abbandonatele."
Ecco una mossa ben più difficile:
richiede attenzione, vigilanza, considerazione per l'universo che ci
circonda ed anche per noi stessi. Richiede benevolenza ("voler bene
a..."). Ma ci consente di vivere meglio. Un'amica mi ha persino
riportato che, sin dal giorno che ci si è costretta, un
mazzo di piccoli disaggi fisici sono spariti, e che un suo amico,
soffrendo cronicamente di depressione, se n'era ritrovato curato.
Allora, che il Buddhismo sia o meno una religione, o una filosofia, che
ce ne frega? ! La domanda era stata fatta male. Disfacciamola, dunque.
Il Buddhismo è ambe due.
Mxl
*Dal greco tetra, quattro, trichos, capelli, e tomein, tagliare...