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© Nanabozho (il Coniglio Magno)
Aggiornamento di questa versione italiana : 15 novembre 2006

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IL DOLORE

«La pratica dello Chan potrebbe caratterizzarsi da pratica a corpo perduto, corpo ritrovato. Il corpo che si tratta di perdere, di trascendere, all'occorenza mutilandolo o immolandolo, è il corpo ordinario, volgare "sacco di pelle" o "di escrementi" - come lo ripeta ad nauseam il maestro Zen nelle sedute collettive di meditazione che pare consistono prima di tutto nel sormontare il dolore fisico, indotto da una posizione seduta prolungata. Il corpo che si cerca di giungere è un corpo glorioso, il corpo di Buddha. Da cui la postura ieratica della meditazione seduta, tutta di controllo. Immobilità, seduta basilare e perfetta, distanza interiore : il praticante si rapprende in una postura che simbolizza ed anticipa la maestria.»

Bernard Faure, Sexualités bouddhiques - Entre désirs et réalités, Aix-en-Provence, Editions Le Mail, 1994, p. 41.


IL DOLORE NELLA PRATICA DELLA MEDITAZIONE
da ERIC ROMMELUERE

il 6 giugno 2000

Eric Rommeluère, vice-presidente dell'Università Buddhista Europea a Parigi, è stato un' allievo di Taisen Deshimaru per parecchi anni, ed anche, a suo tempo, tesoriere dell'AZI. Dirige ora un gruppo di studio del Buddhismo.

Il maestro Gudo Nishijima ha recentemente offerto a Eric di ricevere la sua trasmissione del Dharma, e Eric ha accettato. La cerimonia ebbe luogo nel dogio di Nishijima in Tokyo nel mese di ottobre. Ciò fa di Eric il novantunesimo successore del Buddha (in modo un pò mitico, pero).

(La Coltura del Loto)

Meditazione e dolore.

 

L'apprendistato della meditazione porta a scoprire uno spazio di libertà interiore. Ci si trova in -si ritrova ?- uno stato profondo di appagamento e di tranquillità. Questi stessi termini, in effetti, non sono propriamente adeguati, poiché parlare di appagamento oppure di tranquillità rinvia nuovamente a termini opponibili come agitazione o lotta. Nella meditazione si effettua una trasformazione in cui ogni contrapposizione diventa caduca, non ci si percepisce più come agitato o non-agitato e ci si ritrova ad essere completamente "a proprio agio ". Ma spesso coloro che praticano la meditazione, nella fattispecie i principianti, vengono messi di fronte ad un altra modalità d'essere della meditazione, dove non son tanto a proprio agio. Intendo parlare del dolore. Non è molto evocato ed è quasi un tabù per i meditanti. Per gli insegnanti, spesso in debito verso uno Zen giapponese dal temperamento marziale, la sofferenza fisica viene percepita come normale, anzi perfino necessaria. Questo problema deve tuttavia essere chiarito, tanto sono io stesso convinto che lo stato d'intensa sofferenza fisica che si può ogni tanto sperimentare nel corso di una meditazione rimane antinomico allo stato pacato di samadhi.

 

Sono colpito dal fatto che non si parla quasi mai di questa esperienza del dolore. La letteratura Zen, oggi disponibile è ingente, vi si trovano un sacco di manuali di meditazione, ma nessuno evoca il vissuto dei praticanti, con tutto il suo corteo di difficoltà. Tutt'al più si stenderanno a lungo sulle allucinazioni che, tutto sommato, riguardano poca gente. Ma nulla sulla sofferenza fisica. Vi è una tale quasi non-considerazione del vissuto interiore che non manca di stupirmi. Eppure, chiunque ha sperimentato ritiri zen nello stile giapponese, sa che il dolore è una compagna abituale per tutta la durata delle sedute di meditazione.

 

In parecchi centri zen occidentali, i praticanti vivono spesso la meditazione come una prova. Per molti; le lunghe sedute di meditazione creano uno stato di ipersensibilità e di invasione dolorosa dell'essere. Siccome viene loro richiesto di non muoversi, la maggioranza deve quindi venire a patti con la propria sofferenza : per qualcuno è un leggero movimento del corpo, per un altro un raschiarsi la gola. Quando la cosa si fà troppo urgente, devono inventarsi stratagemmi e accorgimenti mentali per ammobigliare il tempo (e smobilitare il dolore). Georges Frey (alias Taikan Jyoji) che visse parecchi anni nel monastero di Shofukuji in Kobé lo spiega bene : «Vi sono due possibilità di fuggire le difficoltà durante zazen : la prma consiste a praticare la concentrazione sul koan o il respiro. Si dimentica la realtà, si sorpassa il dolore. Così il tempo passa veloce. Ma mi è impossibile di rimanere concentrato più di mezz'ora al giorno. Pratico allora una seconda possibilità, che è quella di farmi dei film nella mente.» (Taikan Jyoji, Itinéraire d'un maître zen venu d'Occident, Paris, Calmann-Lévy, 1996, pp. 154-155). Lo spirito è quindi all'erta - preso in un via e vai continuo tra il «Posso tener saldo?» - ed il - «Non posso tener saldo ?» Si fa la posta al minimo rumore che possa indicare la prossimità della fine della meditazione. I lungimiranti prendono analgesici ed altri balsami per le articolazioni. Perché ogni buon meditante lo sà : fa male !

 

«Non bisogna negoziare col dolore, bisogna sorpassarlo», si sente spesso dire. Un discorso ricorrente vuole infatti che il dolore abbia un valore positivo. Sarebbe addirittura necessario : il dolore permetterebbe una concentrazione migliore, anzi permetterebbe di sventare le trappole dell' "ego". Discorso paradossale, poichè lo scopo del Buddhismo rimane proprio l'eradicazione della sofferenza : «soffrendo non soffrirete più». Leggiamo il diario di Georges Frey : «La prima sera, prendo la salda risoluzione di non muovermi più, sarà quel che sarà. Dovessero staccarsi dal mio corpo le mie gambe, dovessi morire sul mio cuscino, non cambierò la postura. Così ho modificato il mio approccio del dolore. Non tento più di fuggire. Lo aspetto a piede fermo. E' l'unico modo perché la mia meditazione possa approfondirsi. Nonostante la sofferenza, inevitabile, non mi muovo. Devo sorpassarla, altrimenti avrà sempre l'ultima parola. Capisco che devo dominare il dolore o rimanere dominato da esso. Non c'è altra scelta che mettermi in perpetua alta tensione spirituale, dominare per non venir dominato». C'è nello zen giapponese una certa cultura della violenza e della virilità, i novizi la sperimentano nei monasteri, subendo non solo i dolori fisici della meditazione, ma anche la sofferenza morale, la frustrazione e l'umiliazione da parte dei decani.

 

Se è vero che il dolore modifica il nostro rapporto col mondo, - lo si potrebbe qualificare come sottrazione, sottrazione al proprio essere, alle proprie percezioni - non può portare allo stato di samadhi. Parlo naturalmente del dolore totale, invadente, e non di semplici crampi che si avvertono a volte. La confusione psicosomatica (cos'è il tempo, cos'è lo spazio per l'uomo dolente ?) indotta da un corpo dolente è opposta allo stato di tranquillità, di pacatezza. La meditazione ci introduce ad un nuovo rapporto con noi stessi, essenzialmente non-violento. Il dolore, inanzitutto, è totalmente fatto di violenza. Violenza contro se stessi, violenza contro gli altri. Il dolore non è solo una sensazione, è prima di tutto significato. In numerosi Centri, è, difatti, il segno di una coazione; quella della sotomissione al gruppo. Una coazione che ci infliggiamo a noi stessi, ma sopratutto, poichè consentita, una coazione inflitta dal gruppo. Essa implica che il meditante sia in una relazione interattiva. Questo punto è di rado chiarito. Segnado la carne, il dolore materializza l'appartenenza dei corpi.

 

Questa dimensione interpersonale del dolore si rivelerà nelle sesshin (ritiri zen alla giapponese) dove di seduta in seduta il dolore diventerà poco a poco l'esperienza centrale della meditazione. Rimane da scrivere una fenomenologia della sesshin. In ragione di otto a quattordici ore di meditazione quotidiana, la sesshin si trasforma, per corpi poco agguerriti, in una prova nella quale il dolore prende pressapoco un valore iniziatico... La leggerezza o l'alacrità descritte da chi fuoriesce da un ritiro di questo tipo è pari delle difficoltà che vi hanno trovate. Lo zendô, il dôjô, diventa l'arena, il luogo chiuso, dove ognuno, nello stesso tempo testimone ed agonista, partecipa al dolore collettivo. I limiti tra «io» e gli «altri» si sciolgono : Cosa può il mio vicino circa l'irriducibilità della mia sofferenza, soffre anche lui ? Eppure, a volte accade ch'io percepisca un impercettibile movimento, il suo pianto muto. Così lontano e così vicino dagli altri, il paradosso di quel luogo sta tutto qua.

 

Sarà affine a quello degli orientali questo vissuto ? Non dimentichiamo che il dolore non è una semplice reazione fisiologica. Le percezioni, le reazioni, le manifestazioni del dolore mutano a seconda della storia personale, relazionale e culturale. «Pur essendo prossima la soglia di sensibilità per l'insieme delle società umane, la soglia dolorifera cui reagiscce l'individuo e l'atteggiamento che da quel momento utilizza sono essenzialmente legati al tessuto sociale e culturale». (David Le Breton, Anthropologie de la douleur, Paris, Métailié, 1995, p. 110). Per quanto io sappia, non esiste uno studio comparativo sul vissuto meditativo degli orientali e degli occidentali, ma si può supporre che l'acuità, l'apprezzamento e l'integrazione del dolore in un contesto giapponese sia largamente diverso dal nostro. Ho citato ad esempio Georges Frey, svizzero educato nella cultura europea. Se un Giapponese soffre altrettanto, quale sarà la sua percezione del proprio dolore ? Il fatto stesso che ne scriva (e che impregni non solo la sua carne ma anche il suo discorso) è significativo. Potrebbe un Giapponese anche solo parlarne ?

 

Nello Zen estremo-orientale, la rohatsu sesshin ha una parte particolare. Si tratta di una commemorazione dell'Illuminazione del Buddha e dura dal primo all'ottavo giorno del 12° mese lunare (oggi in Giappone, dove si usa il calendario solare, e'dal 1° al 8° dicembre). E' praticata in Giappone, in Cina, in Corea. Si tratta di meditare in modo quasi ininterrotto per una settimana. Tradizionalmente, si dorme seduti per solo qualche ora. Questa sesshin è vissuta dai partecipanti, secondo le testimonianze che si possono leggere quà e là, come una prova fisica intensa dove la deprivazione di sonno si sovrappone al dolore... Viene assimilabile ad un rito iniziatico, si tratta di morire e di rinascere. Nel monastero giapponese del Tenryûji, il ritiro viene spostato per concludersi simbolicamente col solstizio d'inverno. Secondo le parole di Omori Sogen : «Quando si varca la soglia della rinascita del solstizio d'inverno, il yin (oscurità) muta in yang (luce), simbolizzando la rinascita della nostra propria natura originaria, dopo la nostra propria esperienza della Grande Morte» [On crossing the threshold rebirth of the winter solstice, yin (darkness) turns into yang (light), symbolizing rebirth to one's original self-nature after one's experience of Great Death.] (Omori Sogen, An introduction to zen training, Londres, Kegan Paul International, 1996, p. 146). La funzione della sesshin come rito di passaggio, in cui la sofferenza fisica e psichica è centrale, risulta tale ancor più particlolarmente nella scuola zen Sambô Kyodan fondata da Hakuun Yasutani. Sembra che l'illuminazione avvenisse solo a costo di questa sofferenza. Eido Shimano, che insegna oggi lo Zen nei Stati Uniti, riporta che la prima sesshin condotta da Yasutani in Hawai'i nel 1962 che fù: «Altrettanto isterica quanto storica. Si concluse con ciò che Yasutani rôshi considerò essere cinque esperienze di kenshô [illuminazione].» (Senzaki Nyogen, Soen Nakagawa, Eido Shimano, Namu Dai Bosa - A transmission of Zen Buddhism to America, New-York, Theatre Art Books, 1976, p. 185). Non so da quando sia databile la pratica di questi ritiri intensivi, che pare tardiva nella storia dello Zen. Dôgen (1200-1253), per esempio, non la menziona.

 

Allora, bisogna fare l'elogio del dolore ? Costringersi, soffrire ? Bisogna credere che «il dolore non è fine a se stesso, ma [che] impone sforzi per sorpassare i propri limiti : sforzi necessari per cogliere l'esperienza zen» (Taikan Jyoji, ibid., p. 60), e finalemente che «le austerità ascetiche zen sono sempre praticate nel limite delle possibilità umane. Se, dal 1° al 8° dicembre, durante Rohatsu, si pratica zazen in modo quasi ininterrotto, questa è una prova che l'essere umano può non andare a letto per otto giorni.» (Ibid., p. 123). Non avendo sperimentato un satori, non so se lo strazio interno provocato dal dolore si confonde con, o provoca lo strazio dell' illuminazione. Nondimeno, mi pare evidente che ogni dolore maggiore paralizza il samâdhi. Il dolore è chiusura. Ci rinchiude su di noi stessi, il corpo non è più quel compagno silenzioso, grida e le sue grida coprono tutti i suoni del mondo. All'opposto, la meditazione è tutta in apertura. Il dolore è un carcere, la meditazione è una liberazione.

 

Non voglio dire che bisogna essere lassisti o diminuire il tempo della meditazione. La domanda vera da farsi è questa : -Cosa facciamo? : Meditazione, o facciamo finta di praticare ? Leggiamo ancora Georges Frey : «L'occhio a mo' di spada, vedo entrare il Maestro. Regge un bastone corto e piatto. Avanza, piano piano, scruta e valuta ciascun bonzo come un colonello che passa in rivista le truppe. Stiamo sull'attenti, nella posizione seduta, faccendo finta di essere in samâdhi.» (Taikan Jyoji, ibid., p. 40). Bisogna sottolineare il paragone. Per un Giapponese, l'allenamento militare (marziale) e l'allenamento zen quasi quasi si confondono. Conosciamo le influenze reciproche della Via del Guerriero e dello Zen. Il bushidô, l'arte dei guerrieri fu considerato come uno Zen in azione. In cambio, lo Zen giapponese è un' arte marziale dove si combatte, non un nemico esterno, ma un demonio interno : Mara? In tale contesto, l'abnegazione è stata reinterpretata alla stregua della vacuità. Vincere è essenziale : «Durante la meditazione vespertina, ieri, soffrivo tanto d'avere le lacrime agli occhi. Dolore, freddo e stanchezza sono le tre cose che mi accasciano. Non sono ancora capace di superarle malgrado i progressi che ho fatto nel mio zazen. Quanti sforzi per così poca realizzazione! Se il mio desiderio di vincere quelle difficoltà è incrollabile, allora potrò riuscire. Dare il meglio di me stesso sempre, ecco la mia meta, ma quanto è difficile! Mai lasciarmi abbattere, ecco l'essenziale, sempre voler vincere, senza pensare ad altro che di concentrarmi sul kôan.» (Taikan Jyoji, ibid., p. 162)

 

Sarà questo Zen che dobbiamo praticare ? Io credo in un' altro modo di percepire la meditazione, un modo non-violento, quasi "femminile", rispettoso del proprio corpo, opposto alla meditazione virile dello Zen giapponese. Non c'è nulla da vincere nella meditazione. I meditanti non hanno alcun record da superare. In certi Centri Zen, la meditazione diventa l'oggetto di una gara visibile (contro se stessi, contro gli altri) : si tratta di tener saldo ! Per molti, scavallare le gambe entro qualche minuto dal gong fatidico verrà percepito come uno scacco. Eppure, ognuno ha la sua propria storia corporale. Rimango convinto che ognuno deve imparare a gestire la propria meditazione, e non fondersi in uno stampo ieratico la cui serenità sarebbe soltanto apparente.

 

Questo non significa che bisogna smettere di meditare al primo crampo; si tratta piuttosto d'imparare a gestire le proprie difficoltà. Lo Zen coreano suggerisce un modo originale di gestire il dolore che potrebbe venir ripreso. Proprio come in Giappone, i monaci coreani meditano molto. Per loro, l'anno viene suddiviso in quattro periodi di tre mesi, due ritiri formali e due periodi intermedi. Durante le ritirate, il programma quotidiano comprende in genere quattordici ore di meditazione per blocchi da tre ore in cui alternano 50 minuti di meditazione seduta seguiti da 10 minuti di meditazione in piedi. Nei periodi intermedi, si pratica un pò di meno, e a "discrezione" Ciò significa che durante ciascun blocco di tre ore ognuno è libero di gestire la meditazione al proprio ritmo. Le tre ore non vengono segnalate ad ogni ora, ognuno può praticare alternativamente le meditazioni sedute e in piedi come gli pare. Si può quindi uscire dopo mezz'ora di meditazione seduta e fare un'ora di meditazione in piedi. Si ha lì una combinazione astuta di una pratica rigorosa e nondimeno adatta alle possibilità di ciascuno. Naturalmente, è quest'ultimo metodo che ottiene i voti dei monaci. (Cf. Robert E. Buswell, Jr., The Zen Monastic experience - Buddhist practice in contempary Korea, Princeton, Princeton University Press, 1992, p. 167-168). C'è anche una tradizione orale nello Zen Sötô giapponese : ai tempi di Dôgen, si poteva praticare la meditazione in piedi "a discrezione" quando lo si desiderava. Ma non ho trovato alcun testo di quell' epoca che possa convalidare questa tradizione.

 

Nel mio gruppo, ho scelto di diminuire la durata dei periodi di meditazione. Non fanno più 40 minuti (come in Giappone) ma 30. Non è indifferente. Per parecchi occidentali, la soglia del difficilmente sopportabile o dell'intollerabile sta approssimativamente sui 30 minuti. Meglio vale fare una sequenza composta di tre volte 30 minuti di meditazione seduta, inframmezzate da qualche minuto di meditazione in piedi, che consentono di entrare in uno stato di concentrazione profonda senza venire turbati da dolori fisici, piuttosto che due volte 40 o 45 minuti di meditazione seduta... Le soglie del dolore non sono universali.

 

In una sala di meditazione, ogni violenza rispetto a se stessi o ad altri deve essere vietata. Ho scelto di animare le sedute di meditazione nel modo in cui lo faceva il monaco Ryôtan Tokuda durante i primi anni del suo soggiorno in Francia : mi metto di fronte al muro come chiunque, non mi alzo, non uso il bastone e non parlo. Per me è importante di rispettare totalmente lo spazio meditativo di ciascuno. Imporre nulla, sovrimporre niente, nessuna intromissione in questo spazio. In cinque anni di pratica quasi quotidiana in compagnia di Ryôtan Tokuda, l'ho visto alzarsi durante la meditazione magari tre o quattro volte, il più delle volte solo per osservare le posture. Una volta, l'ho sentito alzarsi accanto a me. Ma, appena alzato, si risedette subito. Alla fine della seduta, gli chiesi il perchè di questo repentino mutamento. Mi fece questa risposta disarmante : «Quando mi sono alzato, mi sono accorto che il parchè cigolava. Ho temuto di disturbarvi.» Queste semplici parole mi hanno travolto ; sino ad allora, non avevo mai sentito alcuno reagire in quel modo. Questo dimostrava il suo totale rispetto della meditazione di ciascuno. E' diventato per me, da quel giorno, una linea di condotta. Naturalemente, non si devono abandonare completamente le persone. Certe hanno difficoltà col meditare. Ma bisogna trovare il momento opportuno dove queste potranno accettare ed integrare osservazioni o correzioni. Non necessariamente nel quadro della meditazione stessa. "Rettificarle" affinchè corrispondano al modello di una postura ideale senza tener alcun conto della loro storia somatica o psichica è nel migliore dei casi inutile e, nel peggiore dei casi, dannoso.

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Versione del 15 luglio 2000

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Ringrazio Irma della lista-dharma per la sua gentilissima revisione della mia traduzione del testo ri Eric.


   
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