© Nanabozho (il Coniglio Magno) Aggiornamento di questa versione italiana : 15 novembre 2006 |
Ringrazio Stuart Lachs che mi ha gentilmente autorizzato a tradurre questa opera sua.
Articolo aggiornato a partire da una presentazione fatta al Congresso dell'American Academy of Religion, inBoston nel 1999.
Rappresentazione idealizzata Maestro/roshi
Trasmissione del Dharma Lignaggio Zen
Koan L'alienazione del Maestro/roshi
E' una cinquantina d'anni che il Buddhismo Ch'an/Zen si e' fatto largamente accettare in Occidente. A capo delle istituzioni Zen sta la persona del Maestro/roshi. Grazie al meccanismo delle storie settarie, al compimento dei rituali, di un linguaggio speciale, dei koan, dei mondo [2] e, in un modo ancora più importante, grazie ai concetti di trasmissione del Dharma e del lignaggio Zen, il Maestro/roshi Zen presunto illuminato viene presentato in Occidente quanto persona dalle qualità sovrumane. Questa rappresentazione essenzialmente idealizzata cerca di stabilire, mantenere e rafforzare l'autorità del Maestro Zen. Cerca pure di legittimare le istituzioni Zen e di stabilire in loro seno strutture gerarchiche. Sostengo che questa rapprensentazione idealizzata è stata largamente accettata senza spirito critico in Occidente, ma, quel ch'è più importante, ch'è fonte di una varietà di problemi nello Zen occidentale.
Inizierò quest'articolo col dare quattro esempi che dimostrano questa rappresentazione estremamente idealizzata dello Zen in America. Questi esempi provengono da insegnanti Americano, Coreano, Giapponese e Cinese. Farò vedere che questa rappresentazione del Chan/Zen è largamente accettata e, per giunta, esporrò le conseguenze di tale accettazione. Presenterò il sociologo Americano Peter L.Berger simultaneamente con questo cenno su di questa costruzione sociale della realtà. Farò uso della teoria di Berger attraverso tutto l'articolo, in quanto modello per esaminare le istituzioni Zen. I termini specifici dello Zen, cioè Maestro/roshi, trasmissione del Dharma, e lignaggio Zen, così come i koan ed il comportamento rituale saranno esaminati da vicino. Checchesia il livello di idealismo con cui questi termini ed espressioni vengono presentati agli allievi dello Zen, la realtà del modo in cui sono stati storicamente usati ed il loro significato in un quadro istituzionale sono molto diversi. Questa rappresentazione idealista dei termini specifici dello Zen viene utilizzata per stabilire, a vantaggio del Maestro/roshi, una autorità per lo più immeritata, ed anche per legittimare le strutture gerarchiche del Chan/Zen. Il risultato di tale rappresentazione dello Zen porta spesso all'alienazione del Maestro/roshi Zen, nel senso che da Berger a questa parola. L'articolo verrà concluso con qualche soggestioni di reforma nello Zen a partire da una tradizione buddhista più estesa.
Richard Baker, in quel che forse è il libro Zen più venduto in lingua inglese, *Zen Mind, Beginner's Mind* così descrive il termine roshi:
"Un
roshi è una
persona che ha attulaizzato questa perfetta libertà che
è il potenziale di tutti gli
esseri umani. Esiste
liberamente nella
pienezza di tutto l'essere suo. Lo scorrere del suo pensiero
non ha l'aspetto ripetitivo
della nostra
coscienza ordinaria egocentrata, ma bensì sorge
spontaneamente
e naturalmente dalle
circostanze reali del
momento presente.Ne risulta, in termini di qualità di vita
sua,
un'allegria, un vigore,
un'onestà, una
semplicità, un'umiltà, una sicurezza, una gioa,
una
strana
perspicacia, ed un'insondabile
compassione
straordinari. L'essere suo intero testimonia di quel che
significa vivere nella
realtà del
presente. Senza che niente venga detto o fatto, l'impatto solo di
un
incontro con una
personalità
così sviluppata può bastare nel trasformare tutta
la
vita di un' altra
persona. Ma, in fine, non
è
l'eccezionalità dell'insegnante che incuriosisce, rende
perplesso e
approfondisce l'allievo, ma
bensì la
suprema banalità dell'insegnante.[3]"
Nota bene che questo è stato scritto come introduzione alle parole e agli insegnamenti del maestro del Sr Baker, Suzuki-roshi. Tale introduzione mirava al descrivere una persona reale, e, per estension, cosìcche lo è chiaramente menzionato, ogni persona detentrice del titolo di roshi. Non si tratta di un riferimento idealizzato a un essere celeste o a qualche figura mitologica o remota.
Il maestro Zen Seung Sahn, il maestro coreano più celebre in Occidente, nel suo libro *Dropping Ashes on the Buddha*, [Buttare ceneri sul Buddha] che fu il suo migliore successo in libreria, narra lo scambio di lettere che segue, e che spiega la sua concezione del Maestro Zen. In una lettera al maestro, qualcuno chiede: "Se un maestro Zen è capace di fare miracoli, perché non ce gli fa? ... Perché non fa Soen Sunim come Gesù --restituire la vista ai ciechi, o toccare una persona demente e renderla sana di mente? Persino un miracolo così vanesio quanto il camminare sulle acque farebbe sicché la gente crederebbe nello Zen e la portarebbe al mettersi alla pratica..." Il maestro (cioè Seung Sahn) rispose: "Sono numerosi quelli che vogliono miracoli, e se ne vedono una, ci si attaccano; ma i miracoli sono solo una tecnica. Non sono la Via vera. Se un maestro Zen facesse spesso i miracoli, la gente si attaccarebbe a questa sua tecnica e non impararebbe la Via vera..."[4]
Soen Shaku, il famoso maestro Rinzai che fu l'insegnante di D. T. Suzuki, nei suoi commenti sullo satori Zen [5] dichiara: "Dire che il Buddha ha avuto un'esperienza del suo satori suona come se si parlasse di un monaco Zen, ma io credo che va bene dire di un monaco che ha raggiunto il satori che corrisponde al Risveglio senza sforzo del Buddha."[6] Vediamo qui che il satori Zen viene messo in equazione col Grande Risveglio senza Pari del Buddha, lo zenit veritiero della realizzazione del Buddha. Visto che il Maestro/roshi rappresenta l'istituzione Zen, non ci vuole gran sforzo dell'immaginazione per effettuare la corrispondenza tra l'istituzione Zen di oggi ed il Buddha storico col porre i fondamenti di una convenzione di lignaggio.
Il maestro Chan cinese ben noto, il Maestro Shengyen ha anche detto del maestro Zen: "Bisogna ricordarsi che la mente del maestro è sempre pura... e questo anche se il maestro dice bugie, ruba, e corre dietro alle gonnelle..., lo si considererà sempre quanto maestro vero finché ammonirà i suoi allievi per le loro trasgressioni."[7]
Qua si sta informando il lettore che, poco importa quel che fa il maestro Zen, questo sempre sta aldilà della competenza del lettore e della persona ordinaria. Si informa lo studente che l'autorità del maestro deve esser accettata totalmente a raggione della fede nell'infallibilità e l'onniscienza che sono implicite nel suo titolo. Lo studente è incapace di formolare un qualsiasi giudizio sopra le attività del maestro. L'autodefinizione dello Zen in quanto tradizione che sarebbe aldilà delle parole e delle lettere potrebbe portare a credere che le parole e la riflessione non sono importanti. Eppure, vediamo qui, in termini di ordine istituzionale e di gerarchia, che sono precisamente le parole ed i titoli che sono di capitale importanza.
Tranne le pretese implicite del maestro Shengyen, all'effetto che il maestro sta aldilà della moralità convenzionale, il modo perecedente di descrivere le qualità del Maestro/roshi non ha pretese esplicite alcune di morale o di etica. Cio non significa che tali pretese sono del tutto assenti dal Chan/Zen. Si encapsula spesso la basi della pratica dello Zen nei sei paramita, il secondo, 'sila' potendo indifferentemente esser tradotto da moralità o disciplina. I dieci precetti essendo un' altro viale tramitte il quale entra la moralità nella pratica dello Zen. Gli si traduce spesso "Dieci Gravi Precetti". Robert Aitken-roshi sottolinea la sua comprensione dell'importanza dei precetti col dichiarare:
"Senza i precetti come ringhiere, il Buddhismo Zen tende a diventare un passatempo, fatto per corrispondere ai bisogni dell'ego."[8] Aitken-roshi non sta solo nel credere, cosicch'è communemente sostenuto nello Zen ed il Buddhismo in genere, che i precetti sono la base sulla quale la pratica della meditazione si fonda. Benché ci sia una separazione tra il modo in cui funziona la pratica, e le conseguenze morali ed etiche di questa pratica, visto che il Maestro/roshi rappresenta la pienezza della pratica, quando si esaminano l'autorità e la gerarchia del Chan/Zen, ci si accorge che la maniera e le conseguenze sono strettamente legate.
Nelle quattro citazioni di maestri moderni che ho appena menzionato, si può farsi un'immagine abbastanza esaltata ed idealizzata di quel che significa esser un Maestro o roshi. E' interessante vedere come due di questi insegnanti hanno palesato la loro parola, e come il loro allievi ci hanno risposto. Anche se non viene fatta alcuna menzione di questioni etiche o morali in nessuna delle citazioni che precedono, si direbbe che gli allievi certo hanno delle aspettative al livello della moralità, come lo andremo a vedere.
Qualche due anni dopo l'aver scritto la descrizione di un roshi qui sopra, Richard baker ne diventò uno, poco prima che il maestro suo, Suzuki-roshi, morisse verso la fine del 1971. Dieci anni dopo, Baker-roshi fu coinvolto in uno scandalo che ivelò i suoi ripetuti mancamenti a una buona condotta sessuale, così come il fatte che menava una vita da gran signore, mentrte pagava ai numerosi membri che lavoravano nelle imprese del Centro stipendi che erano al limite della stretta sussistanza. quest'affare divise enormemente il San Francisco Zen Center [9], ed ebbe come risultato di obbligare Baker-roshi a lasciare il Centro dopo lunghe ed aspre trattative sull'importo delle indennità di partenza e dei diritti di proprietà sulle collezioni artistiche ed i libri comprati durante il suo mandato di roshi e di abbate.
Qualche anni dopo, Seung Sahn fu anche lui preso in scandali sessuali, perché aveva per parecchi ani avuto relazioni simultanee con un certo numero delle studentesse sue, che dirigevano centri satellitari attraverso tutto il paese. La spiegazione di Seung Sahn fu che bisognavano del suo potere per continuare a dirigere i Centri. Questo affare divisò molto i suoi disceptoli e arrecò la partenza di parecchie persone.
Nel quadro della ricerca per quest'articolo, ho effettuato un sondaggio postale presso centocinquanta Centri Zen e persone cavorandoci attraverso la nazione. Il questionario consisteva in una lettera di introduzione ed una seconda pagina con la lista di otto espressioni.[10] Lo scopo di quel sondaggio era di vedere come membri di svariati Centri Zen capivano un certo numero di espressioni-chiave, che definiscono o colorano quel che significa lo Zen in America. Ho ricevuto trentotto risposte. Sei provenivano da persone cui sapevo sono sia responsabili di grandi Centri o sia che avevano ottenuto la trasmissione del Dharma dai loro maestri. I risultati del sondaggio non furono concludenti, anche se avessero fornito una materia anedottica non indifferente, quali le cronache che seguono a proposito sia della ritirata diretta da Carol, sia l'assemblea di un Centro Zen dell'America del Norte. Il termine trasmissione del Dharma è quello che ha ottenuto l'accordo più unanime tra i rispondenti, quasi tutti avendo esposto esplicitamente, o sembrando implicarlo, che la linea dello Zen risaliva alla figura storica del Buddha Shakyamuni. La maggioranza delle risposte esprimeva una coscienza molto limitata dei diversi modi cui i termini ed espressioni Maestro Zen/roshi, trasmissione del Dharma, e lignaggio Zen sono pottuti esser utilizzati nel corso della lunga storia dello Zen.
Le parole hanno un potere. E' con le parole che capiamo il mondo che ci circonda, che danno un senso a questo mondo, e che, sino ad un certo punto, determinano quel che vediamo veramente. Presentare lo Zen in modo idealizzato ha conseguenze. Vorrei racontarvi due storielle per sottolineare la forza dell'autorità che si attribuisce a chi assume un ruolo d'insegnante nello Zen, perlomeno in America. Uno di coloro rispondarono al mio sondaggio, oltre rispondere alle mie domande, ha riferito quanto segue. In America del Nord, nel 1998, ebbe luogo una ritirata (sesshin) sotto la direzione di un'insegnante Zen che chiameremo Carol, con otto allievi a tempo pieno, ed un certo numero di allievi a tempo parziale. [11]
La sesshin comminciò normalmente, ma sin dal secondo giorno, Carol aggiunse il suo nome alla lista delle persone decedute a chi vengono dedicate le recitazioni. Il terzo giorno, le interviste private che fanno parte dello studio dei koan furono cancellate. Alla sera, Carol portò il gruppo al cinema, un'attività inaudita durante una ritirata da sette giorni. Il quarto giorno, Caro fu assente quasi tutto il tempo e fece servire un pasto di pizza e di ciampagne per la cena, che normalmente sarebbe dovuto essere un pasto vegetariano piuttosto semplice e senza alcolici. Il quinto giorno, annunciò che tutti dovevano traslocare a Miami e quindi dovevano cominciare ad imparare lo spagnolo. fece seguire quest'annuncio da un discorso semicoerente a proposito di circoli interni ed esterni. Nel corso del pomeriggio, fece vedere la video di ET, il film di Steven Spielberg. Poi, annunciò che il gruppo terrebbe un funerale per celebrare la morte del suo ego. Lei lasciarebbe la stanza, ed il gruppo dovrebbe preparare il funerale e avvertirla quando sarebbe tutto pronto. C'erano nel gruppo due donne che studiavano con ella da quindici anni. Il mio corrispondente riferisce che dopo la partenza di Carol, chiese a queste donne se era possibile che fosse faccendo un specie di collasso mentale, e suggerì che forse bisognava por fine allo spettacolo. Un altro allievo fece una domando sui psicodrammi. Tutte due le anziane gli rassicurarono col dire che tutto stava bene. Il mio corrispondente si ricorda aver detto loro: "Macché diamine, andiamo avanti collo spettacolo!" e non lasciò la sala malgrado il suo scetticismo sulla condizione mentale di Carol.
Il gruppo organizzò una cerimonia funebre, Carol tornò ed il gruppo portò la cerimonia a termine. Carol pretese allora che, visto che era oramai morta, non conosceva più il proprio nome, ma che nel frattempo si poteva chiamarla "Zen Ma". Il tipo che narra la storia dice che, a quel momento lì, si è chiesto se Jonestown non era lì vicino, ma invece di Kool-Aid al cianuro, il gruppo bevette ancora ciampagne. Dopo cena, Carol partì in un lungo discorso sul suo incontro con Swami Muktananda. Di botto, si fermò e disse che risentiva un'energia negativa, poi chiese: "Ci sarà qualcuno nella stanza che ha energie negative?" Il mio corrispondente confessò che ne aveva, infatti, ma che non ne voleva parlare. Carol ordinò: "Dillo!", acciocché il tipo rispose che era interessato nell'essere l'allievo di qualcuno, ma non un discepolo. Lei rispose coll'intraprendere un discorso sul Tibet e su di Milarepa, si fermò dopo qualche minuto e, guardando a lui, gli disse: "Allora, perché non tagli la corda da qui?", a qual punto fu esattamente quel che fece.
Circa due settimane dopo la ritirata, Carol decise che le due donne che studiavano con lei da cosi lungo e che avevano rassicurato al mio corrispondente sulla salute mentale dell'insegnante, erano streghe, e le ordinò di andarsene via, pure loro.Carol abandonò quindi tutte le sue possessioni e partì per la Florida.
E' interessante notare che, malgrado la strana condotta di Carol, ed il suo discorso incoerente, nessuno nella ritirata se ne andò dalla propria iniziativa, ne fece direttamente domande all'insegnante. Le due anziane sostettero che niente era abnormale quando venne a galla in privato la questione della salute mentale dell'insegnante. Dopo due mesi, Carol tornò dalla Florida e tutti quelli che erano stati con lei nella ritirata tornarono a studiare con lei, tranne il tipo che mi ha riferito questa storiella. Una volta di più, la riferisco in quanto illustrazione, pur estrema, della specie di rispetto e di ubbidienza cieca che gli studenti occidentali possono portare al loro maestro Zen. Da pure rilievo al fatto che la realizzazione putativa dell'insegnante, a forza di venir ripetuta da un contesto Zen all'altro, graverà o trasformerà il più delle volte ciò che accade sotto agli occhi dell'allievo. Bisogna notare a quel proposito che Carol non era un maestro o un roshi ufficialmente riconosciuto, ma professsava il ruolo senza averne il titolo.
La seconda storiella che vorrei racontarvi ebbe luogo nel 1999. Un Centro Zen dell'America del Nord organizzò un incontro a proposito della condotta problematica del maestro Zen del centro, e più precisamente un complesso di consumo eccessivo di alcolici, senon alcolismo propriamente detto, e casi di "cattiva condotta sessuale". Uno dei partecipanti mi ha racontato che erano parecchi i membri del gruppo che si dimostrarono completamente sbalorditi dal fatto che uno che era censato aver raggiunto l'Illuminazione completa, il Maestro Zen, potesse manifestare una condotta così spiacevolmente sciocca. Il mio informatore si chiedette dove avevano questi allievi preso l'idea che il maestro fosse "pienamente sveglio", in più della corrolaria immunità alle debbolezze umane...
Tutto sommato, nelle definizioni e descrizioni del Maestro, o roshi che sono state citate agl'inizi di quest'articolo, c'è una straordinaria pretesa all'autorità. Queste descrizioni sono state fatte da individui che sono anche loro Maestri/roshi, i più ufficiali portavoci delle istituzioni Zen. Ma, a partire dagli esempi citati in precedenza, mi pare che esista una certa disparità tra le attese credule degli studenti, per virtù di concezioni idealizzate, e quel che succede nel mondo reale. Che tali idealizzazioni siano potuto essere causa di problemi nell'Estremo Oriente non è il soggetto di quest'articolo. Sostengo pero che una versione asiatica idealizzata dello Zen è stata accettata senza spirito critico in Occidente, e che ciò possa essere una fonte di problemi per noi.
Attraverso i svariati Centri Zen di America, si è avuta poca, anzi nessuna discussione sul significato delle espressioni e dei titoli che definiscono lo Zen o il modo in cui tali titoli ed espressioni sono stati utilizzati in Oriente nel corso della lunga storia dello Zen. E' possibile che una delle raggioni nascoste dietro a questa difficoltà di discussione possa essere che, per mancanza di quadro teorico o di coscienza critica, i membri delle communità Zen hanno ricorso solo al contesto che gli forniscono le loro esperienze personali. Quel contesto personale è in larga misura il mondo dello Zen, il suo linguaggio, le sue idee, ed il suo modo di pensare. Se lo studente tenta di esaminare in modo critico le istituzioni Zen, non può farlo altrimenti che dall'interno del contesto e del linguaggio dello Zen, il quale, per raggioni che esamineremo più in là, s'idealizza se stesso, anziche i suoi ruoli ed i termini definendi più importanti. Persino in tale situazione di esame critico delle istituzioni Zen, lo studente finisce spesso per conferire ancora più potere a quelle medesime autorità che sta criticando, così come lo vedremo nel corso di quest'articolo, perché questo è ciò per che il linguaggio dello Zen è stato previsto.
La confusione che arrecano i pregiudizi sul Risveglio e l'autorità spirituale non si limita ai centri qui sopra menzionati dell'America del Nord, e neanche ai soli Stati Uniti. Ho ricevuto corrispondenza dalla Francia, dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dall'Australia e dalla Nuova Zelanda a proposito di un articolo [12] che ho scritto e che è stato postato sull'Internet, e che trattava della disparità tra il modo cui le istituzioni del Buddhismo Zen funzionano nel mondo, e le attese che abbiama da esse, e che sono basate su di una concepimento idealizzato che viene accettato senza spirito critico.
Una persona in Francia [ero io, nota del traduttore] che mi ha contattato e mi ha chiesto il permesso di tradurre il mio articolo in Francese, a specificamente menzionato che la sua motivazione era che una monaca Zen francese gli aveva dichiarato che un Maestro Zen è una persona pienamente illuminata. Tali risposte indicano che dogmi di questo tipo sono sparso attraverso tutto lo Zen occidentale, e che le organizzazioni Zen stentano a fornire un contesto nello quale tali postulati possano essere esaminati in modo critico.
Come antidoto a tale situazione, credo sia necessario considerare il mondo dello Zen, la sua gerarchia e le sue figure di autorità attraverso un quadro teorico separato dallo Zen. Credo che un tale quadro di riferimento possa venir fornito dal lavoro di un sociologo americano quale Peter L. Berger. Certe parti di quest'articolo saranno informate dalle concezioni di Berger sulla costruzione socilae della realtà e sull'aspetto inerente del suo carattere dialettico. Le concezioni di Berger possono sembrare truismi, oggi, trent'anni dopo la pubblicazione del libro "The Sacred Canopy" [13] (Il baldacchino sacro), ma credo che danno prova di una necessarissima penetrazione sul soggetto delle strutture sociali e simboliche della tradizione Zen. Il meno che si possa dire è che gli aspiranti occidentali hanno dato prova di pochissimo spirito critico nella loro adozione di convenzioni asiatiche, essenzialmente giapponesi, nel corso degli ultimi cinquant'anni, ed è abbastanza ironico per una scuola che mette un accento così forte sull'esame personale.
In questo articolo, la nostra maggiore preoccupazione va verso il concepimento che ha ogni praticante dei ruoli e delle istituzioni dello Zen in America. Quel concepimento più corrente è quello propagato dalle istituzioni Zen stesse In modo più specifico, andremo ad esaminare l'autorità e la gerarchia, come sono fondate e mantenute, e come sono prodotte e riprodotte. nel caso del gruppo Zen nord-americano già menzionato, e che si era radunato per esaminare i problemi che risultavano del eccessivo consumo di alcool da parte del maestro, e della sua "cattiva condotta sessuale", vi si potrà vedere un'illustazione dei risultati effettivi del processo cui vorrei parlare. Ricordatevi che la persona che mi ha riferito di questa riunione è stata sorpresa per il fatto che tanti studenti credettero che il Risveglio del Maestro dovette essere talmente "pieno" o "completo" che dovette essere esente di debolezze umane, e ciò benché il Maestro stesso non abbia mai fatto presente tali pretese. Tuttavia, non è necessario che il maestro stesso abbia delle pretese sul suo Risveglio o sul suo livello di perfezione, perché le tradizioni istituzionali dello Zen ripetono in una maniera o l'altra questa pretese nel nome della persona che sta al posto di Maestro Zen. Purché ogni discepolo Zen sia correttamente socializzato in un gruppo dato, non può vedere il Maestro altrimenti che esprimendo la Mente del Buddha. Infatti, è spesso quel che crede il maestro stesso. Attraverso la sua struttura, le sue pratiche rituali, e forse in modo ancora più significativo, attraverso la sua utilizzazione di un complesso di termini e di definizioni, l'istituzione raffroza questa pretese per e al posto del maestro Zen.
Il termine Maestro Zen viene particolarmente glorificato, e assieme coi due concetti apparentati di trasmissione del Dharma e di lignaggio Zen, formano una triada concettuale che rafforza l'autorità all'interno delle istituzioni Zen. I termini della triada si sopportano e si riflettano a vicenda, e la loro connessione interdipendente viene presentata in modo idealizzato per fondare il potere, l'aspetto sacro e l'alterità imputati al Maestro. Alla pari colla triada sovramenzionata, i koan, i mondo ed il comportamento rituale agiscono quali elementi di sostegno per fondare tale autorità. La maggioranza dei rappresentanti dello Zen nell'Ovest, a comminciare dal D.T. Suzuki, hanno ripetuto variazioni di quest'idealizzazione paradigmatica. Gli altri esempi che sono stati presentati all'inizio di quest'articolo ne sono delle dimostrazioni. Viene ugualmente ripetuta nelle numerose storielle falsamente presentate come storiche, sotto forma di koan o di mondo, in più dei loro commentari di scorta. Credo che una osservazione che faceva Noam Chomsky rispetto all'indottrinamento politico si può applicare al caso. Cioè che l'essenza della propaganda, è la ripetizione.
Per chiunque non avrebbe frequentato molto i Centri Zen americani, sarebbe difficile credere sino a che punto l'autorità dell'insegnante sugli studenti sia forte. Ovviamente, non s'incomincia la pratica dello Zen con tale credenza; la si acquista poco a poco in quanto parte di un processo complesso e collettivo. Gli esseri umani creano necessariamente la società tramite un processo dialettico (cioè un dialogo che sarebbe altrettanto interno, con se stessi, quanto esterno, con gli altri) e collettivo, e la società, in contraccambio, viene riflettata in quanto realtà obiettivata, così contribuendo alla creazione dell'individuo umano.[14] Se si considera il mondo dello Zen in quanto microsocietà, la costruzione collettiva del mondo effettuata dallo Zen avviene tramite meccanismi di gruppo e di pratica rituale. Per giunta, ogni informazione che, verbalmente o no, viene communicata tra le persone, che si acquista tramite le parole del Maestro e degli anziani, e che si assimila attraverso la massa degli scritti e commentari colletti dalla tradizione Zen, riempie e definisce il mondo dello Zen. Grazie a quel complesso di meccanismi, è un potente sistema di credenze che è impartito allo studente americano dello Zen.
Berger scrive: "che la società sia prodotta dall'uomo, e che l'uomo venga prodotto dalla società non sono contradittori. Ciò rifletta soltanto il carattere dialettico inerente al fenomeno societale." [15] Dimostra anche che "l'uomo non solo produce un mondo, ma si produce anche se stesso... Questo mondo, ovviamente, è la coltura... La coltura abbisogna di esser continuamente prodotto e riprodotta dall'uomo... L'uomo produce anche il linguaggio e, su di questa base, e tramite questa base, costruisce un edificio vertiginoso di simboli ch'impregnano tutti gli aspetti della vita." Vediamo quindi che, di conseguenza, "sono gli uomini in azione che costituiscono e mantengono la Società", donde segue che "l'attività di costruzione del mondo dell'uomo è sempre ed inevitabilmente un'impresa collettiva... Il mondo prodotto dall'umanità raggiunge il carattere della realtà obiettiva." [16]
Ogni individuo è confrontato all'irresistibile impatto dell'esperienza. A fine di evitare il senso di caos, è necessario l'organizzare e il dare senso a questa pletora di dati, cioè litteralmente fabbricare il mondo. Questo processo di costruzione del mondo comporta un nuovo vocabolario e nuove costruzioni e significati mentali. Esaminiamo accuratamente ciascuno dei membri della triada di termini, così come i koan e la condotta ritualizzata.
Chiunque visita un Centro Zen è generalmente colpito dall'ambiente formale e ritualizzato del tempio o dello zendo, un ambiente creatore di un senso del sacro. Prima di entrare, si tolgono le scarpe, ci si trova una certa calma, il profumo dell'incenso, l'altare colle statue del Buddha circondate di offerte, di fiori, di frutta ed un bonzo, un monaco, o una monaca in kolomo e kasaya verso i quali gli altri dimostrano tanto rispetto ed inchini, persino prosternazioni. Ci si impara presto che esiste una gerarchia così nettamente definita e rigida quanto checchesia che si veda nelle istituzioni religiose occidentali. Se uno si implica nella vita del gruppo, si impara che vi sono modo stabiliti di comportarsi nel tempio, nella sala di meditazione, nel condividere i pasti communi, nelle salutazioni degli altri membri, monachi o monache, e quando ci si incontra l'insegnante, Maestro o roshi. Ci si impara pure tutt'un nuovo linguaggio che comprende un complesso nuovo di termini e definizioni. L'adozione e l'uso continuo di tale linguaggio informerà i concepimenti del mondo di questa persona, ed il posto che ci occupa -- tanto rispetto al mondo nel suo assieme quanto col suo posto nel mondo dello Zen. I modi di vedere che vengono così sposate nella communità Zen riformeranno e coloriranno, ad un grado o l'altro, i modi di pensare e la rappresentazione del mondo di questa persona. Una persona che si implica in modo attivo in un gruppo Zen non solo si identifica colle idee e concetti dello Zen, ma anche si vede come esprimendo queste idee attraverso il discorso, l'atteggiamento, e l'attività, ed in quanto rappresentante dello Zen stesso. E' interessante vedere che la maggior parte della gente attribuisce in seguito la loro nuova "Weltanschauung", la loro rapprensentazione del mondo, al frutto della "pratica". Ciò che sembra loro essere frutto spirituale può infatti essere forse l'aggiustamento all'istruzione ed all'indottrinamento in una rappresentazione del mondo prefabbricata.
Nel mondo dello Zen, il Maestro sta a capo della gerarchia e trae la sua leggittimità dall'atto di trasmissione del Dharma. Il Maestro fa da, o rappresenta, la realtà assoluta rappresentata dal Buddha.Tale identificazione della persona del maestro colla realtà assoluta fa da riferimento sacro e universale, ed è il mezzo tramite il quale la sua autorità, e per estensione, quella dell'istituzione, viene leggittimata. Il maestro umano è nettemente fatto di carne ed ossa, eppure, s'inquadra pure suppostamente aldilà dell'umano, visto la credenza che la sua "mente è sempre pura" e che le sue attività procedono dell'assoluto.
Storicamente, in Giappone, "roshi" è a volte effettivamente stato capito come rango fondato sullo sviluppo spirituale, mentre in altre epoche è stato utilizzato quanto titolo con nient'altra connotazione che il semplice rispetto. Esistono occasioni nell'uso giapponese (particolarmente nella scuola Soto) dove solo denota un rango amministrativo. In un modo un pò analogo alla "trasmissione" storica del Dharma, per un certo numero di raggioni espedienti, il titolo di "roshi" come i suoi svariati analoghi, così, sembra aver significato molte altre cose diverse in svariate occasioni ed in svariati periodi. Non vi è, e non vi è mai stato, un autorità centrale ne in Cina ne in Giappone, ne da nessun'altra parte, che certifichi il passaggio ufficiale di chiunque alla "roshitudine", basato su un qualsiasi criterio formale, a fortiori sulla realizzazione spirituale. Sarà forse Soko Morinaga roshi, già presidente dell'Università Hanazono (Rinzai), ad averlo detto nel modo più efficiente: "Un roshi è chiunque si da questo titolo e riesce ad fare sicché altri glie lo danno."[17]
Un esempio interessante ci è fornita dal caso dell'insegnante Zen americano Philip Kapleau. Il Sig. Kapleau usa il titolo "roshi" ed i suoi allievi, come quasi tutte le altre persone implicate nello Zen americano, lo chiamano così. Il Kapleau è stato estremamente influente, così attraverso il suo insegnamento personale come tra i suoi libri e articoli, nello spargere lo Zen in America e all'estero. Merita il rispetto, se nient'altro perché ha insegnato per parecchi anni senza mai esser stato toccato da scandali finanziari o sessuali. Questa è una realizzazione alla quale un certo numero di altri insegnanti, in possesso di certificati di trasmissione del Dharma e di titoli dovutamente convalidati non possono pretendere. Eppure, il Kapleau stesso ha esplicitamente affermato di non essere un erede del Dharma del suo insegnante, Yasutani roshi, e di non aver ricevuto questo titolo di roshi ne da Yasutani ne da nessun altro [18] Essenzialmente, lo ha preso lui, quel titolo. Questo non vuol dire che non sia ne più ne meno qualificato di chiunque altro; solo significa che non ha mais ricevuto un riconoscimento "formale" da un insegnante più anziano di lui dall'una delle linee "ufficialmente" riconosciute nello Zen.. E interessante vedere che il Kapleau ha "trasmesso" a taluni dei suoi discepoli, stabilendo da questo fatto una discendenza che comincia con lui, e quindi diversa di tutte le altre discendenze Zen, che, perlomeno a livello retorico, trattengono il mito di un lignaggio ininterrotto risalendo sino al Buddha Shakyamuni. E' pure vero che praticamente nessun ricercatore, orientale o occidentale, prenda quel mito sul serio.
Ciò che è forse sorprendente per gli Americani, che ritengono il modello giapponese come più autentico, anzi l'unica forma autentica, è che esistono altre forme, più antiche e non meno autentiche di monachismo Zen, come quello coreano (Son). Robert Buswell, nel suo studio della vita monastica Zen nella Corea contemporanea, descrive una struttura organizzativa che différisce in una maniera rinfrescante dai Centri Zen ispirati dal Giappone familiair alla maggioranza degi studenti occidentali dello Zen. Nello Zen coreano, l'equivalente del roshi/Maestro Zen, il panjang, "occupa un posto elettivo per un mandato iniziale di dieci anni. Se il maestro non compie il suo compito in modo adeguato, una petizione firmata da cinquanta monaci basta per destituirlo. Le affinità di un maestro vanno più ai suoi colleghi di meditazione quanto a un maestro specifico." [19] Che le fedeltà di un monaca vadano più ai colleghi che a un maestro specifico rappresenta un'orientazione verso la pratica di gruppo che noialtri, in America, potremmo esplorare di più. Tale tipo di struttura toglierebbe una gran parte della dipendenza verso di un insegnante e dell'idealizzazione e gerarchia concomittanti che sono incorraggiate nei centri d'ispirazione giapponese. L'eminente roshi contemporaneo, Masataka Toga ha dichiarato: "Nello Zen giapponese, la lealtà è la cosa più importante. La lealtà rispetto al proprio maestro e alla tradizione è molto più importante che rispetto al Buddha e al Dharma."[20] Quest'atteggiamente potrà forse esser ben adattato alla coltura giapponese, una coltura ben diversa della nostra. Eppure, sarebbe gran tempo che i praticanti americani cominciassero ad esplorare strutture di pratica che non siano esclusivamente modellate sulla forma giapponese, ma su di modi che siano più compatibili colla nostra propria coltura d'ideali ugualitari e democratici. Si potrebbe mettere meno accento sulla lealtà assoluta verso un superiore o verso un'istituzione e più sull'ugualianza mentre si minimizzarebbe le strutture gerarchiche.
In un certo senso, lo Zen ha interverso la sua autodefinizione di una "trasmissione separata fuori dalle parole e dalle lettere." Dovremmo tenere a mente che, a secondo le concezioni Zen, la verità non può esser espressa in parole, ma invece, soltanto tramite le attività spontanee e naturali della vita quotidiana.[21] Tuttavia, lo Zen concede un gran prestigio e una grande autorità a un ruolo istituzionale investito con gran pompa, che si tratti di un maestro, di un roshi o di un Shifu, invece dal fondare l'autorità sull'attività realmente vissuta ed osservabile dell'individuo. Perlomeno in teoria, quest'ultimo criterio è l'unico modo leggittimo in Oriente, per discernere il marchio del savio. E' fondato sul concetto di tiyong, generalmente tradotto con essenza-funzione, e ch'è eminente in tutti i sistemi filosofici estremo-orientali.[22] A secondo questa concezione, è la trasformazione della personalità riflettuta nella capacità di agire della persona in modo spontaneo (direttamente) e senza ostacoli in reazione alle situazioni fenomenali, che è il marchio del savio o del risvegliato. Si dice del Maestro/roshi che è realizzato, cioè che trasforma l'ideale dell'attività illuminata in "realtà dell'esperienza quotidiana".[23]
Lo Zen ha messo il carro davanti ai buoi. Le istituzioni Zen definiscono ogni insegnante dotato dal titolo di maestro o di roshi come un savio o un essere sveglio. L'imputazione di quest'aspetto non dipende dalle qualità che potrebbe manifestare l'insegnante, e che si potrebbero vedere come marchi di realizzazione o di risveglio. Poco importa se l'individuo possa o meno manifestare prove qualsiasi di un livello di realizzazione spirituale così esaltato, il titolo istituzionale conferisce questo statuto all'insegnante. In virtù dell'investitura ad un posto istituzionale, la persona acquisisce automaticamente tutt'un complesso di qualità impressionanti. E' straordinario, ovvero assolutamente ordinario. Acquisisce anche la capacità di agire e di parlare a partire dalla prospettiva dell'Assoluto, di fare miracoli, di mantenere sempre la mente pura ed, al fine, diventa il repositorio, senon a dirittura, la viva manifestazione dello spirito perfettamente realizzato del Buddha Shakyamuni. Gli allievi non hanno il potere di fidarsi nelle loro proprie capacità di osservazione empirica e di intuizione per giudicare la condotta quotidiana reale, attimo per attimo, di un insegnante.
Benche le istituzioni Zen persistano nel definirsi come tradizione che "non dipende ne dalle parole ne dalle lettere", esiste un imperativo tacito al fare precisamente solo questo. Ci si aspetta e insegna ripetutamente che gli studenti devono avere rispetto e devono esaltare il termine di "Maestro" o di "roshi", cioè un titolo e una posizione cerimoniale designati da esso, invece di fondarsi sui propri buonsenso ed intuizione in affari che hano a che fare coll'autorità dell'insegnante. C'è un inganno lì nascosto. Da una parte, la retorica Zen dice ai suoi discepoli di stare nell'istante presente, di vedere quel che c'hanno davanti agli occhi --- "Guardate, guardate!" s'esclama Linzi.[24] Eppure, d'altra parte, la stessa retorica Zen implica che questi discepoli sono incapaci di vedere quel che succede davanti a loro, quando dirigono lo sguardo sul Maestro/roshi. La natura dell'attività illuminata deve essere creduta sulla parola, in virtù di un titolo. Ciò che fa il maestro è, di per natura, attività illuminata.
E' chiaro che si tratta di una situazione che, agli allievi dello Zen che accettano o interiorizzano questa costruzione della realtà, toglie ogni possibilità di autonomia. Pone il maestro in una posizione che sta, di qualche modo, sopra e per di sopra l'umano, visto che ogni attività dei maestri sono illuminate, in provenienza dell'Assoluto. Susseguentemente, vedere il maestro equivale a vedere la buddheità incarnata. Non è quindi stupefacente che il gruppo Zen nord-americano cui abbiamo parlato poco fa, ben socializzato nella retorica Zen come lo era, si sia potuto stupire che un maestro Zen sia capace di dar prova di debolezze umane. IL maestro, trascendendo la sua umanità, diventa un icono, una rappresentazione idealizzata di una verità più grande, aldilà della comprensione e del giudizio. Ad esempio, un brillante primo di graduatoria in filosofia, dopo qualche lettura sullo Zen, e vedendo per la prima volta un Maestro cinese attraversare una stanza, espresse questa veduta "iconica" col dichiarare: "Era intenso, sai, era intenso!"
[1] Tante grazie a Simeon Gallu per l'aiuto suo alla pubblicazione. Ogni commenti da parte dei lettori sarà il benvenuto. Si prega scrivere (in inglese) a <slachs@worldnet.att.net> o a me stesso.
[2] Mondo- quel termine giapponese significa domanda-risposta; si tratta di un dialogo o scambio verbale tra maestro e allievo nel quale l'allievo fa una domanda che lo scompliglia particolarmente e per la quale il maestro tenta di tirare una risposta dalla mente intuitiva dell'allievo. Koan (g.), kung-an (ch.) : all'origine, in Cina, un caso pubblico (senso letterale) di legge che stabiliva un precedente nel Cian/Zen, un koan è un dialogo o scambio tra un maestro e una o più persone, in quel che pare un linguaggio e gesti confusi, eppure indica così una verità del Cian. Si può utilizzare quanto soggetto di meditazione, quanto soggetto d'insegnamento del Dharma.
[3] Shunryu, Suzuki, Zen Mind , Beginner's Mind, Weatherhill, 1970, p.19.
[4] Sahn, Master Seung, Dropping Ashes on the Buddha: The Teachings of Zen Master Seung Sahn, Grove Press, 1976, p.99.
[5] Satori: termine giapponese tradotto con Risveglio, Realizzazione, vedere la propria natura, o aprire gli occhi. Si vede/fa l'experienza della vacuità delle cose e del se, benché codetta vacuità non sia diversa dalle 10 000 cose. Questa vacuità è viva e vi si vede l'interrelatività di ogni cosa. Esistono esperienze profonde e meno profonde di satori.
[6] Victoria, Brian, Zen At War, Weatherhill,1997, p.199, fn. 50, citato a partire dal Eastern Buddhist, 26/2(1993), p.141
[7] Esposto in una conferenza pubblica data nel suo Centro. Quella fu poi stampata più tardi nel bollettino del suo Centro, Ch'an Newsletter, No. 38, 1984, pp.1-2.
[8] Aitken, Robert, The Mind of Clover, North Point Press, 1984, p.3. Vedi anche, Lori, John Daido, The Heart of Being: Moral and Ethical Teachings of Zen Buddhism, Charles Tuttle and Co., 1996. Pâramitâ è stato tradotto da perfezione o trascendenza. I sei sono il dono, la moralità, la pazienza, lo sforzo, la meditazione, e la saggezza. Si è tradotti i dieci precetti da: l'astenersi dall'uccidere, rubare, avere una condotta sessuale disordinata, mentire, abbandonarsi all'ebbrezza (alcool o droghe), dal discutere dei difetti altrui, dal vantarsi, abbandonarsi all'avidità, alla collera ed al diffamare i Tre Gioielli (Buddha, Dharma, e Sangha).
[9] Butler, Katy, "Events Are The Teachers," (Gli avvenimenti sono i maestri) The CoEvolution Quarterly, inverno 1983, pp.112-123. Per dare una scala, nel 1982, allorché gli studenti che lavoravano nelle imprese del centro percepivano solo uno stipendio minimale, Baker spese più di $200,000. Buona parte di questa somma era in rapporto col suo lavoro in quanto abbate, ma spese pure impulsivamente soldi per opere d'arte, ammobigliamento e pasti in ristoranti di lusso. Il Centro Zen pagò $4,000 per il suo quota in un club scelto, l'Adirondack Club nello Stato di New-York, e, malgrado le reticenze del Consiglio di amministrazione del Centro, $26,000 per la sua BMW.
[10] Gli otto termini e espressioni erano trasmissione del Dharma, transmissione di mente a mente (i shin den shin), Maestro Zen, roshi, lignaggio zen, essere/persona sveglia(o), monaco(a), e kensho/satori.
[11] La persona che racconta la storia studiava i koan con Carol da un anno e mezzo. S'interessava di Zen da minimo vent'anni, avendolo praticato una parte di questi anni con un gruppo Zen importante in un altra parte dell'America del Nord, cui aveva ricevuto il permesso di insegnare ai principianti.
[12] Lachs, Stuart."Coming
Down From the Zen
Clouds," 1995, Articles on Buddhism and East Asian Philosophy,
www.human.toyogakuen-u.ac.jp/~acmuller/articles/eaprforum.htm
"Per
ridiscendere dalle nuvole &emdash;
Sguardi critici sulla situzione presente dello Zen
americano"
[13] Berger, Peter, L., The Sacred Canopy, Doubleday, 1967.
[14] The Sacred Canopy, pp.7-9.
[17] Raccontato in privato all'autore in occasione di una visita negli U.S.A. nel 1983.
[18] Lettera pubblica di Koun Yamada -roshi 1/16/86. Yamada-roshi era l'erede di Yasutani -roshi. Diventò capo della scuola Zen Sambôkyôdan fondata da Yasutani -roshi ed anche diede la sua trasmissione del Dharma a Robert Aitken. Ugualmente una lettera dal Sig. Kapleau a Koun Yamada 2/17/86.
[19] Buswell, Robert E., The Zen Monastic Experience, Princeton University Press, 1992, pp. 204-208.
[20] Masataka Toga, direttore dell'Istituto degli Studi Zen, Università Hanazono, e successore nel Dharma dell'eminente roshi Rinzai, Yamada Mumon, citato nella rivista completa fatta da Josh Baran del libro di Brian Victoria, Zen At War, sull'internet o www.darkzen.com. (in inglese); in francese a http://perso.club-internet.fr/ube/grez/html ed in italiano a Guerrasanta.html
[21] McRae, John, "Encounter Dialogue and Transformation in Ch'an," in Paths to Liberation, pubblicato da Robert Buswell e Robert Gimello, University of Hawaii Press, 1992, P.354.
[22] Muller, Charles A., "The Key Operative Concepts in Korean Buddhist Syncretic Philosophy, Interpenetration and Essence- Function in Wonhyo," Chinul, and Kihwa, Bulletin of Toyo Gakuen University, No.3, March 1995, P.2.
[23] Cook, Francis, Hua-yen Buddhism, The Pennsylvania State University Press, p.18.
[24] Watson, Burton, The Zen Teachings of Master Lin-chi, Shambala, 1993, p.13
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