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Anicca, anatta e dukkha

 

Sito realizzato da Nanabozho (il Coniglio Magno)
Questa pagina e' stata aggiornata il 10 novembre 2006

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17ans

Parleremo oggi di anicca, di duhkha, e di anatta.

 

Anicca, cioè l'impermanenza. L'ultima foto di me che ci si poteva vedere qui accanto non era davvero recente, poiche risaliva a quasi dieci anni. Da quel tempo, i pochi capelli che mi rimanevano hanno imbianchito molto. E quindi, in mancanza di una foto più recente, che peraltro non ho, ho pensato di farvi vedere quel ragazzo che mi aspetto di trovare davanti a me, ogni mattina nello specchio. Ed ogni mattina, accidenti!, mi accorgo che anicca è passato da quelle parti! L'impermanenza viene anche chiamata "seconda legge della termodinamica", o legge di entropia,la quale stabilisce che ogni assieme costituito deve per forza finire per disorganizzarsi. In poche parole, un coso cui non si scappa, checchesi dica, checchesi faccia.

Canta il Dhammapada :

Sabbe sañkhârâ aniccâ'ti yadâ paññâya passati
Atha nibbindati dukkhe esa maggo visuddhiyâ.

Questa stanza dice proprio :

Tutti (sabbe) i processi (sañkhârâ) sono incostanti (aniccâ'ti):
Quando lo si costata con discernimento (paññaya),
Ci si stanca della sofferenza (dukkhe)--
Ecco (esa) la via (maggo) verso della liberazione (visuddhiyâ).

C'è anche :

Incostante sono le cose composte. La loro natura: sorgere & sparire.
Si sbandano già dal loro sorgere. La loro totale fermata è felicità.

Heraclito, agl'inizî del V° secolo prima dell'Era corrente, diceva che "Per gli uomini ch'entrano dentro, questi fiumi sono sempre gli stessi, ma altre ed altre acque sempre passano." Niente di ciò che è "medesimo" lo rimane. Anche se c'è un legame di continuità biologica tra quel ragazzo 17 enne e lo schnock 53 enne che sta battendo questi tasti, non sono la medesima persona.

Ovviamente la foto è un pò vecchia. E' coetanea (1965) di quel grande inno buddhista degli anni '60, a proposito di dukkha, voglio parlare di "Satisfaction" dei Rolling Stones. I can't get no satisfaction...

 

Duhkha, cioè l'insoddisfazione. La sofferenza ontologica, questa sorda angoscia che più o meno ci stringe a secondo i giorni. Certo, è di intensità variabile, a secondo i momenti, i luoghi, le staggioni e sopratutto le persone. C'è per chi duhkha è solo lo stress permanente che gl'impedisce di approffitarsi della vita, come quest'attrice quebecchese che, a Parigi sugli Champs-Elysée passeggiava di fretta, senza guardare nulla. "Stava già pensando al ristorante. Mentre cenava, si struggiva di essere al teatro. Poi, al teatro, aveva fretta per l'indomani . . . ".

C'è chi si crede che il "qui ed adesso" del Buddhismo consista nel dimenticarsi del passato e a non pensare nell'avvenire. Ma non è davvero possibile, perché, in tal caso, imitaremmo solo alle bestie. E quid, allora, di questa capacità unica tra tutti gli esseri sensibili, che è questa del genere umano a poter aspirare al Risveglio? No, bisogna capire questo qui ed adesso altrimenti. Poiché, anche gli animali sono sottoposti a duhkha. Qui ed adesso può quindi soltanto significare che la realtà, mentre partecipa dall'ieri ed anticipa l'indomani, succede qui ed adesso. Ciò ch'è fatto è fatto, bisognava pensarci quando era ancora tempo. Quel che non è ancora non lo è, e se non si vuole che sia troppo spiacevole, bisogna qui ed adesso fare quel che c'è da fare. E quello che merita di essere fatto, merita di essere fatto bene.

Nel Sutra della Ruota del Dharm, il Buddha spiega :

"Ecco, o bhikkhu, la nobile verità su di dukkha. La nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte sono duhkha. L'unione con ciò che odiamo, la separazione da ciò che amiamo, il non ottenere quel che desideriamo lo sono pure. In breve, tutto ciò a che siamo attaccati è duhkha." (Dhamma Cakkappavattana Sutta, Samyutta nikaya, Sacca samyutta)

Infatti, ciò che è causa di questa sofferenza, di questo stress, o malessere, questa angoscia o insoddisfazione, come si vuole, è il fatto che la nostra mente è sempre tesa verso del fantasma di ciò che la farà felice. Anzi, questa sete di altra cosa fa sicché non vediamo quel che si appresenta. E quando la felicità bussa alla nostra porta, non la vogliamo lasciare entrare, per che non ha l'appunatamento. Eppoi, non somiglia al nostro fantasma, e la diciamo di andare via, o di prendere l'appuntamento, perché stiamo aspettando la felicità. Vivere qui ed adesso è sapere vedere ciò che sta lì, e perciò, non bisogna lasciarsi offuscare dal fantasma.

Anni fa, (e me ne morderei tuttoggi le dita se non ne avessi capito la vanità), stavo viaggiando nel Ovest della Francia. Ad un dato momento, la lampada spia dell'olio si è accesa. Siccome stavo nel timore di un problema elettrico (come, ahimé! è solito sulle moto italiane, benedetti voi...), mi sono seccato, pensando di vedere accesa la spia dell'elettricità. Ho quindi corso (troppo) a lungo, preoccupato da questo problema elettrico. Quando mi sono accorto che era difatti un problema di olio, e che quindi quel che pensavo di essere la spia di elettricità era infatti quella dell'olio, era già troppo tardi, avevo guastato l'albero motore. Dunque, qui, duhkha proviene da un'osservazione scorretta e disattenta, e di una sbagliata accettazione della realtà. Non si da nessuna presa a duhkha, quando non si duole di niente (non c'è nulla da rammaricarsi) e non si spera niente (non c'è nulla da sperare). E non pensare che "sperare niente" sia uguale a darsi alla disperazione. Non c'è da disperare, semplicemente perché non si spera nulla. Poiché, paradosso, non c'è nulla da sperare quando si ha una totale fiducia nell'Universo. A ciò pure, si può vedere che sperare è anche duhkha. (Vedi però il Post Scriptum)

Ma insomma, non ci rimane altro che trovare qualche cosa per illustrare anatta, ma temo che non sia così facile...

Nell'aspettare un luminoso suggerimento dall'uno ou dall'altra dei miei innumerevoli lettori/trici, non saprei assufficientemente insistere sulla necessità del sorriso, grande andidoto di duhkha. Come lo diceva la mia nonna materna, "smile, and the world smiles with you; cry, and you'll cry alone", (sorridi ed il mondo sorriderà con te; piagni, e piagnerai da solo)...

 

Anatta, è l'inesistenza di un se distinto. Spesso, si legge o sente gent, a volte rispettabilissima (er Papa, od altri) dirci che il Buddhismo crede che nulla esiste. Ancora una citazione troncata. Certo, il problema è di sicuro antico, se i documenti ci fanno vedere che si è sempre trovata gente per pensarlo così. E' l'eresia del nihilismo, cui il rappresentate moderno più importante è forse il Giapponese Nishida Kitaro (1870-1945). Ma ciò che dice anatta, non è che nulla esista. E' anzi il fatto che nulla esiste di maniera isolata, fuori contesto. Ed è anche, benché in una prospettiva cristiana e cattolica, ciò che esprime John Donne, predicatore inglese del XVII° secolo (dopo l'esser stato poeta libertino),nella sua Meditazione XVII, "Per chi viene segnato il tracollo". Ed è anche ciò che illustra il Reverendo Martin Luther King Jr, nell'estratto che segue :

"Che ne abbiamo o meno coscienza, ognuno di noi è indebitato per l'eternità.Siamo i debitori di uomini e di donne conosciuti e sconosciuti. Non possiamo finire la collazione, senza esserci fatti dipendenti da più della metà del mondo.. All'alzarci, alla mattina, andiamo in sala da bagno dove impugniamo una spugna che ci procura un insulare del Pacifico. Usiamo di un sapone fatto da un Francese. L'asciugamani ci viene da un Turco. Sulla tavolo, beviamo un caffè prodotto da un Sud-americano, del tè da un Cinese o del cacao da un Africano. Prima di partire a lavorare, siamo obbligati presso più della metà del mondo. In un senso molto reale, ogni vita sta in interrelazione con gli altri, tutti gli uomini sono presi in una rete inevitabile di reciprocità, travolti in un destino commune.Tutto ciò che tocca direttamente l'uno, indirettamente tocca tutti gli altri.

Martin Luther King Jr.

Anatta è la continua evocazione che non possiamo pretendere far astrazione del nostro ambiente, sia fisico, sociale quanto umano. C'è chi ha potuto dire che "nulla di ciò che è umano mi è estraneo". Ma il buddhista, quanto a lui, dirà che nulla gli è estraneo. Punto e basta. Facciamo uno solo con i tre mila mondi, per quanto tenue sia il legame che ci congiunge a taluni dei loro elementi. Bene ci lo fa vedere il nostro presente sregolamento climatico.

Per questo viene cantato nel Dhammapada :

Sabbe dhammâ anattâ'ti yadâ paññâya passati
Atha nibbindati dukkhe esa maggo visuddhiyâ.

Questa stanza dice proprio :

Tutti (sabbe) i fenomeni (dhammâ) sono senza esistenza propria (anattâ'ti):
Quando lo si costata con discernimento (paññaya),
Ci si stanca della sofferenza (dukkhe)--
Ecco (esa) la via (maggo) verso della liberazione (visuddhiyâ).

Mxl

 

P.S.: Ho già incontrato l'accusa di fatalismo, rispetto al Buddhismo. Questa accusa merita una rifutazione. Il fatalismo è essere nell'idea che niente di ciò che si possa dire o fare non serve a nulla, visto che tutto è già scritto. Non può essere un fatalismo il Buddhismo, poiché dice che ciò che si sta faccendo porta i semi di quel che sarà. Bisogna dunque essere, in qualche misura, fatalista rispetto a ciò che accade qui ed adesso, visto che non possiamo, volendo nolendo, rimediarci. Ma siccome ciò che sarà non lo è ancora, poiché dipende E da ciò che sta alle radici di quel che è appena accaduto, e sta succedendo, E dai nostri atti in questo contesto specifico. Se si fa bene ciò che c'è da fare, nel contesto globale di ciò che è, è di capacità nostra che ciò che sarà domani sia positivo o negativo. Ma questo è il soggetto del Karma, che sarà oggetto di un prossimo articolo.


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