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Questa pagina e' stata aggiornata il 8 dicembre 2006

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Il Buddhismo Zen
come lo intendo "io" .

Un poco di storia

Il BUDDHA (-560 à - 480 prima dell'EC.)

 

L'uomo che chiamiamo il Buddha si chiamava Siddharta Gautama, ed apparteneva al clan dei Shakya. Visse nella città (o borgo) di Kapilavastu, le cui rovine si trovano oggi al confine del Nepal e dell'India. Erede del regno (probabilmente piuttosto un territorio clanico), si sposa all'età di 16 anni e la sua sposa gli da un figlio.

I suoi primi anni si svolgono pacatamente in una felice quietudine. Dovuto a una predizione fatta alla sua nascita, rimase allungo protetto, mantenuto al riparo, rinchiuso nel pallazzo, e difatti ignorante delle miserie, degli orrori, le sofferenze del mondo. Quando ne uscirà, ne avrà una visione sconvolgente delle sofferenza umana, della malattia, della vecchiaia e della morte. A quel momento, decide di lasciare tutto e così comincerà la sua lunga ricerca spirituale sino all'illuminazione al piede di un vecchio ficus pipal.

 

La sua dottrina

L'insegnamento del Buddha è eminentemente pratico. Rifiutando di cadere ne nell'eccesso dell'idealismo, -- che non vuole esaminare altro che i concetti--, ne in quello del materialismo, --che non vorrebbeoccuparsi d'altro che degli elementi tangibili ed empirici dell'universo--, propone una dottrina basata sull'agire, visto come perno inaggirabile intorno al quale si articolano le idee e le cose. I suoi due elementi basilari sono quindi lo studio, poiché l'insegnamento suo deve esser assimilato dalla mente, e la pratica, poiché cio che assimila la mente deve venir esperimentato per poter esser convalidato

(Rammento che questa separazione tra corpo e mente è essenzialmente una finzione di linguaggio)

In partenza, si trova in quel che chiamiamo la Predica di Benares, visto che è lì che ha esposto la sua scoperta per primo.

Vi è dukkha (sofferenza-stress-insodisfazione-malessere-mal di vivere)
Questa sofferenza proviene del nostro soler preferire i nostri fantasmi alla realtà.
La sofferenza cessa quando si smette di valorizzare i nostri fantasmi al dispetto della realtà, e che si accetta di guardare quest'ultima di fronte.
E possibilie liberarsi della sofferenza colla pratica dell'Ottuplice Nobile Sentiero

Per un esposto più dettagliato

Dopo della sua morte, i suoi discepoli continuarono il suo insegnamento. Ma la scrittura non essendo stata in uso nell'India altro che molto tardi, ci volle aspettare parecchi secoli prima che questi insegnamenti fossero registrati sulla carta? Nel frattempo, la trasmissione della dottrina di fece soltanto in modo orale. Niente sorpresa dunque se si siano insidiate divergenze, considerando sopratutto che i temperamenti essendo per necessità differenti, i metodi lo devono essere pure.

Il Buddhismo finì per spargersi in Cina, dove la sua adattazione e la traduzione dei suoi testi incontrarono altri ostacoli. Uno di questi, tipicamente umano, essendo, ossia di inoltrarsi in pratiche rituali, ossia di perdersi nello studio intelettuale, che sono due cose che fanno sviare dalla "Via di Mezzo."

Finalmente, contemporaneo della fine dell'Impero romano di Occidente, arriva in Cina un bonzo indiano, più o meno mitico, dal nome religioso di Bodhidharma, cioè, "Insegnamento di Risveglio".
Dopo aver risposto al Figlio Celeste che, a partire dal momento che si preocupava di sapere quanto gli porterebbe di meriti, -- le fondazioni religiose che aveva fatte a favore del Buddhismo, -- che non avevano alcun valore poiché le voleva barare, se ne andò in una grotta in montagna per nove anni dove si trova oggi il monastero, celebre, di Shaolin (scritto 'boschetto', in cinese)

Quel uomo, che certuni vorebbero non fosse mai esistito (ed è probabile che quello che viene dipinto nelle leggende non sia veramente esistito, lo stesso di Giovanna d'Arco, di Napoleone o Nerone...) ci ha trasmesso la pratica fondamentale del Buddha shakyamuni, che è proprio quella della meditazione. Uno dei termini che riguardano i stati raggiunti durante quella è dhyâna (jhana, in Pali), ed ha dato in fine la parola "Zen".
La parola "contemplazione" sarebbe più idonea per tradurre questa parola, prima traslitterata (senza traduzione) dai Cinesi jhan-na.
Si tende a dimenticare che la pronuncia del Cinese ha molto cambiato nel corso dei secoli, proprio per che i caratteri ideografici non lo lasciano indovinare, al dinanzi delle nostre lingue. Dal ottavo secolo al tredicesimo, i Giapponesi hanno importato il Buddhismo dalla Corea e dalla Cina, accanto alla letteratura ed alla lingua. Usando di una scrittura sillabica, hanno mantenuto la pronuncia arcaica del Cinese, ed è così che jhan-na è diventato zen-na. Abbreviata in "zen", è così a noi pervenuta. Anche se si traslittera la parola cinese moderna con "chan", è utile sapere che i CInesi pronunciarebbero piuttosto "dgienne".

E' così che, per parecchi secoli, lo studio del Buddhismo, a volte derivato in forme (ed apparenze) sorprendenti, ha costantemente fatto ritorno a la pratica della contemplazione, seduta o in piedi, come viene costantemente ripetuta dall'iconografia che spesso rappresenta il Buddha in queste posture.

Lo Zen è dunque la tecnica privileggiata dalla scuola dello stesso nome, per praticare quegli insegnamenti.

La posturo viene più difficilmente da noi, a raggione della perdita di flessibilità ch'implica il nostro modo moderno di vivere
Ciò non significa che no ci si possa accedere. (Bisogna intanto fare quelche esercizi in preparazione).

Con tale postura, si immobilizza il corpo-mente. Ed è per virtù di quel paradosso che si può accedere (o sperare accedere) ad una comprensione del mondo e dell'esistenza che ci liberi, almeno in parte, deila malasorte che conosciamo e che è dovuto, in fin dei conti, a noi soli.

In questo senso, si tratta di un allenamento al zazen. Ma anche alla vita.

A fin di evitare di cadere in un eccesso che spesso rinfaccio ad altri che non nominerò, tenterò di spiegarmi brevemente.

Se si pratica la contemplazione-concentrazione che implica la pratica del Buddhismo Zen, si può facilmente trascrire codetta pratica nelle varie attività della vita quotidiana. Si mantiene l'attenzione alla condotta di un veicolo, o al maneggio di una macchina o di un utensile, accresciendo così la propria sicurezza ed efficacia. Si evita di rendersi infelici per delle cose senza importanza, e si da tutta la propria attenzione e le sue energie a quel che è veramente importante. Si evita di arrabbiarsi su degli oggetti che non ci possono nulla, ed anche di rimproverarsi errori, che è pure una perdita di energie. Invece, si osserva, si esamina i propri errori, i mancamenti propri o quelli degli oggetti, e si tratta di rimediare..

Quando si agisce così, si mette semplicemente il Buddhismo in pratica. Non si tratta di un quietismo, né di un fatalismo, perché di una dottrina che privileggia così tanto l'azione non la si può dire fatalista. Ma si tratta semplicemente di fare quel che c'è da fare, al momento in cui si lo deve fare. E' in questo che spesso dissero i maestri, che la Via non ha nulla a che fare con la meditazione seduta (Zazen). Ma quest'ultimo, se bene capito, può permettere di evitare i trabocchetti che seminano il nostro camino.


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